2013 /

timbro datario su parete 4,5 x 3,5 mt, all’interno della galleria 3)5 arte contemporanea, sede di Rieti

The end

estratto dal testo “Marcello Mantegazza: THE END. Ma non è la fine”. di Barbara Martusciello
La titolazione di questa mostra, THE END, che vede campeggiare l’omonimo lavoro site specific di Marcello Mantegazza, contiene richiami esistenziali e anche cinematografici. Infatti, quando una pellicola terminava, è questa la scritta che compariva sullo schermo, ad avvisare il pubblico che non c’era più altro da vedere: fine della storia. Positiva o negativa che fosse, che sia, è un percorso, non solo cinematografico, che volge al termine: un avviso, ma direi una constatazione, che è reperto d’annata perché ormai inusuale nei film più recenti ed è quindi anche parte della memoria più o meno condivisa. The End è vintage ma è anche un serio rimando alla vita che, come Mantegazza ha definito in una precedente Personale, include, come anche certa cinematografia, uno spoiler: anticipazione più o meno evidente della trama e della sua conclusione. L’autore non fa che palesare ciò, entrando dentro la materia e un ragionamento che egli visualizza con opere che mantengono una propria sofisticata bellezza. Tutto il procedere dell’artista racchiude una stratificazione di significati che rinviano all’analisi di questioni capitali come lo scorrere del tempo, la sua durata e la sua sistematizzazione, il pericolo, la corruzione e consunzione, l’estraniamento, la caducità della vita. E’ il concetto di tempo, in special modo, che egli anatomizza attraverso una sua poetica enciclopedica portata a riflettere sul senso e sulla qualità – anche estetici – della catalogazione. Il fattore e valore-tempo sono approfonditi in maniera forse più evidente – e anche grazie alla grande opera su muro The End – e passano attraverso paternità/maternità autorevoli come quelle di Alighiero Boetti, On Kawara, Gino De Dominicis, Vincenzo Agnetti, Roman Opalka, Annette Messager, Christian Boltanski fino a Esther Ferrer o a Christian Marclay… Ho più volte avuto modo di scrivere questa derivazione, che è molto importante e manifesta, come diversamente lo è l’insistenza per la classificazione in modo sistematico. Anch’essa ha radici storiche ma qui si definisce in una sfera più personale, recondita. Mantegazza, cioè, attiva campionari privati che tradiscono una sua passione per gli inventari: di fotografie, per esempio, ma anche di ritratti di persone, di appunti, oggetti… Egli è attratto dalle elencazioni di nomi, di date significative, di sequenze telefoniche, di indirizzi e di attività consuete organizzate grazie a liste della spesa, degli appuntamenti, degli ingredienti; ama gli abecedari, le tavole anatomiche, le statistiche, i manuali, gli indici e accumula collezioni. Quest’apparentemente onnivora attenzione per ogni promemoria ed enumerazione è collegata da una necessità dell’artista di ricopiare, scrivere o disegnare una serie di contenuti, di testi e di componenti anche grafico-visivi su album, taccuini, agende e altri supporti tradizionali – cartacei e comunque analogici – al fine di memorizzare il dato di partenza, di studiarlo e possederlo contemporaneamente. Di sradicarlo dal non luogo dell’indistinto, dell’indifferenza o, peggio, del rumore di fondo. In questa sua pratica non v’è un’indagine sull’ordine e sul controllo ma una considerazione sul fluire di eraclitiana memoria (πάντα ῥεῖ ὡς ποταμός) e in questo lungo scorrere egli non vuol rischiare di perdere nulla delle cose del mondo e della vita. Così lavora incessantemente: timbra muri creando messaggi, scava libri chiusi alla ricerca delle parole da non dimenticare, strappa per conservare e rianimare pagine di zibaldoni… La vita passa pure dagli albi, da registri e affastellamenti di elementi, come lo sono gli anni, i mesi, i giorni, gli attimi di cui si compone la nostra realtà. Così Mantegazza si aggrappa a questi frammenti, scandisce queste parti e le riporta al tutto: per The End usa un datario, contrassegnando il muro con un inchiostro standard che imprime sulla superficie le tante e diverse date del timbro equivalenti ai molti giorni di lavoro che sono occorsi per visualizzare, appunto, le parole; esse si possono leggere, però, solo scendendo a patti con lo spazio, ovvero guardandole da una certa distanza: di sicurezza? Sia come sia, forse è saggio quel che affermava Charles Baudelaire, che qui pare prendere decisamente corpo con un’analoga consapevolezza, ovvero che “C’è solo un modo di dimenticare il tempo: impiegarlo”, e vivere.